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martedì 13 maggio 2008

Travaglio e Materazzi

Difficile inserirsi nel dibattito sul caso Travaglio – Schifani, senza correre il rischio di ripetersi. Ma leggendo l’articolo di D’Avanzo su Repubblica.it, mi sovvengono diverse riflessioni.

Innanzi tutto il proliferare ampio e diffuso di un esercizio dialettico e dottrinale per argomentare sul perché Travaglio abbia torto e tutti gli altri ragione, Schifani incluso. Pretendendo, al contempo, che questo non possa essere la riprova che tutto il sistema mediatico sia esattamente controllato ed indirizzato, come viene accusato di essere da molti.

Basti pensare l’invocato diritto di replica del quale pare, sembra, essere stato privato il Presidente del Senato, per cui, alla fine, a fronte di uno spazio concesso al giornalista di Annozero pari a circa 15 minuti, si sono riscontrate reazioni di zelanti “avvocati difensori” (excusatio non petita accusatio manifesta) per oltre 48 ore (e non si sono ancora esaurite). Tali da configurarsi come eccesso di legittima difesa. Domenica sera ho pensato che, di una siffatta difesa d’ufficio avrebbe avuto più bisogno il buon difensore dell’Inter, Materazzi. Reo di aver sbagliato il rigore scudetto e per il quale è stato allestito un processo mediatico – accusatorio, tale da mettere a rischio concreto l’incolumità del giocatore e della sua famiglia. Ma, evidentemente, il diritto di replica ed autodifesa è “conditio sine qua non” solo per alcuni specifici esponenti della nostra società. Però non gridiamo all’antipolitica se alcuni preferiscono meglio definirli col nome di casta.

Molti hanno osservato come appaia sospetto il fatto che il problema si sia posto solo allorché, quanto riferito da Travaglio, abbia travalicato la carta scritta dei libri o le pagine html del web, giungendo alla quotidianità del pubblico televisivo. Producendo una reazione violenta e isterica simile a chi, trovandosi in un reparto rianimazione di ospedale, si preoccupi di garantire che pazienti in convalescenza non vengano disturbati nella loro quiete. Come spettatori televisivi, è dunque così, che siamo considerati? Pazienti in stato semivegetativo a cui è opportuno celare la diagnosi di malati terminali?

Sarebbe una ben triste constatazione questa. Perché lo stesso D’Avanzo argomenta con grande stile e dottrina, invocando il più classico dei: “noi lo sapevamo già e lo avevamo denunciato…” ma conclude con una teoria che è tutta da verificare. Secondo la quale loro (stampa e tv) sono gli unici deputati ad analizzare e valutare i fatti, per cui se loro stabiliscono che una notizia non “ha da essere” questa può essere celata alla pubblica opinione a buon diritto. Aggiungendo che esiste una sorta di prescrizione, o meglio, miopia mediatica, per cui, se, a loro insindacabile giudizio, è trascorso un lasso di tempo adeguato, la questione passa in giudicato e a nessun titolo può essere rivangata.

Il giornalista di Repubblica ci ricorda che “il passato è passato” ma non chiarisce se si può escludere che non vi sia una nesso tra la nostra classe politica e le condizioni in cui versa il nostro Sistema Italia. E come si può non ritenere necessario che la lotta alla criminalità organizzata, necessiti di misure draconiane che facciano terra bruciata intorno ad essa e, se pur non penalmente perseguibili, considerare politicamente inadatti ad una carica pubblica quanti abbiano avuto a che fare, a vario titolo, con condannati per reati di mafia. Come accade in molte democrazie del mondo.

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