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giovedì 1 maggio 2008

Quando ci si rifiuta di imparare dagli errori del passato e si cercano capri espiatori esterni.

Sembra che stavolta non sia il caso di dire che la storia si ripeta. Dopo la sconfitta pesante di tutto il centro sinistra alle ultime elezioni, scopriamo che le assonanze con quanto accadde successivamente all’esito delle elezioni politiche del 2001 si limita al solo concetto della vittoria della coalizione guidata da Berlusconi e la sconfitta rispettivamente dell’allora candidato premier di Ds e Margherita, Rutelli e dell’odierno leader del PD (alias DS e Margherita) Veltroni. Osservando che anche allora l’Ulivo corse diviso da quella che era la sinistra estrema.

La deduzione che si fece allora della sconfitta fu che, la scelta di una linea strategica centrista che intercettasse il voto moderato, fosse stata la causa primaria della sconfitta. Infatti non solo non si catturarono consensi tra l’elettorato più moderato, ma si persero parte di quelli più a sinistra, che non si riconoscevano in una politica poco attenta alle esigenze delle fasce più deboli della società.

Proprio l’analisi di questa crisi portò alla nascita di quel movimento di idee noto come “Girotondini” legato all’impegno politico diretto di esponenti del mondo della cultura, primo tra tutti, se non altro per la sua notorietà fu il regista Nanni Moretti che legò indissolubilmente il movimento allo slogan “..dì qualcosa di sinistra”. Sintesi chiara ed esplicita della necessità di rifondare tutta la sinistra italiana attraverso la ricerca di una politica meno di compromesso verso i poteri forti dell’economia e dell’establishment e più marcatamente a sostegno di quel complesso di valori fondanti quali l’equità e la solidarietà sociale, la certezza del diritto e la difesa delle prerogative di pluralismo e democrazia della costituzione italiana.

L’impegno di molti sortì l’effetto spingendo tutto il centro sinistra in un esame di coscienza catartico che sfoggiò in una maggiore attenzione e coinvolgimento della base nei processi decisionali del vertice. Esempio ne fu l’introduzione di, seppur empirici, meccanismi come le primarie per la selezione dei candidati alle tornate amministrative che via via si susseguivano.

Di pari passo il riscontro delle urne invertiva significativamente il risultato delle politiche precedenti, con un susseguirsi di successi elettorali alle diverse elezioni regionali, provinciali e comunali tra il 2001 ed il 2006. Dunque l’opzione di trascurare le vie di maggior compromesso e perseguire delle strategie chiare e, come direbbe Moretti, “…di sinistra” si rivelava pagante. Portando tutto il centrosinistra (Unione) alla vigilia delle elezioni politiche del 2006 a sostenere come unico candidato Prodi. Ma ciò era già di per sé un sintomo di una certa inversione di tendenza. I giorni dei girotondi erano ormai lontani. Di quel crogiuolo di idee e partecipazione non rimaneva più traccia, come un kleenex, aveva assolto un ruolo strategico strumentale e preciso, dopodichè era stato gettato. Insieme a buona parte delle sue idee ed aspirazioni. Il nuovo candidato premier era esso stesso l’antitesi del rinnovamento e della scelta decisa che si era dimostrata pagante. Prodi rappresentava infatti il ritorno al compromesso centrista e la ricerca di apparire più accattivanti a quel fantomatico elettorato di centro che tutti pretendevano di voler catturare. E così, come un padre ed una madre che, troppo intenti e cercar di avere un’ altro figlio, omettono di prestare le dovute cure ed attenzioni a quelli che già hanno. Il largo vantaggio che si accreditava alla coalizione dell’ Unione, alla vigilia della campagna elettorale, oscillante fino a sfiorare i dieci punti, andava di fatto assottigliandosi fino al sostanziale pareggio. L’ingovernabilità conseguente produceva scelte che andavano ad accentuare, più che ad attenuare, l’errore strategico di fondo della campagna elettorale dell’Unione. Infatti le politiche attuate dal governo Prodi si spingevano sempre più in un appiattimento verso il centro e, a volte, financo verso la destra. Veramente a questo punto le istanze dei girotondini si perdevano come leggende nei meandri della memoria e con esse la riforma del sistema radiotelevisivo, il conflitto di interessi e la riforma della legge sul precariato.

Anche stavolta la cosiddetta società civile produceva autonomamente un movimento spontaneo di rivendicazione. Il quale, appoggiandosi alla dirompente capacità mediatica di Beppe Grillo, reclamava un modo diverso e nuovo di far politica. Ricalcando i sentimenti di fondo di coloro che portarono i girotondini a scendere in piazza, ossia la ricerca si uno spazio di democrazia diretta per tutti i cittadini da contrapporre a quella che a detta di molti oggi assume tutte le caratteristiche di una plutocrazia. Mentre per i primi vi fu accoglimento ed autocritica da parte dei partiti e della politica di centrosinistra, stavolta per quanti si riconoscevano nelle battaglie di Grillo (marchiati con un che di dispregiativo con la diminutio del suo nome: “grillini”) vi era solo il dileggio la chiusura e la scomunica come espressione di antipolitica.

La crisi e la conseguente caduta del Governo di centrosinistra era questione di tempo. Meno di due anni e si ritornava alle urne. Stavolta i numeri dicevano che il favorito era il centrodestra guidato per l’ennesima volta da Berlusconi. Di fronte a lui non vi era più una coalizione compatta ma diversi soggetti primo tra tutti il neonato Partito Democratico, alias, ancora una volta la fusione della sinistra moderata dei DS e della Margherita. Ancora una volta ci si trovava di fronte ad una precisa scelta strategica e politica mirante a cercare voti tra l’elettorato moderato più che tra l’elettorato garantito. Ancora una volta si abbandonavano i figli legittimi che avevano costruito la casa comune alla ricerca di presunti figliastri.

L’esito elettorale è ancora fresco e sotto gli occhi di tutti, perfettamente in linea con il passato, il PD tracolla sotto i colpi del centrodestra, venendo punito da una singolare legge del contrappasso, per cui molti suoi elettori, o potenziali tali, migravano tra le braccia di una Lega semplicemente perché questa decideva di essere maggiormente presente in tanti spazi popolari colpevolmente lasciati scoperti da ciò che una volta erano Ds e Margherita. I quali, si badi bene, in tutte queste evoluzioni, più di acronomi e sintassi che di sostanza, hanno continuato a non discostarsi dalla pura e semplice somma dei loro voti. Ossia quel 32/33 % di consensi vantati nel 2001 confermati nel 2006 e ribaditi nel 2008. Tali valori ebbero maggior rilievo solo nel periodo tra il 2003 ed il 2005, allorché la spinta dei Girotondi fece assumere posizioni politiche più marcate e meno di compromesso.

Ma oggi le conclusioni post elettorali sono ben diverse da quelle della sconfitta della coalizione allora guidata da Rutelli. Adesso il PD, nonostante i numeri dicano altro, rivendica un successo, che dire di Pirro pare poco. La sinistra estrema decide di rinchiudersi in se stessa e nei suoi simboli (falce e martello) invece che nelle fabbriche, nei cantieri e nelle borgate dove fino a ieri regnava incontrastata. Ma tant’e che la scelta di un quartier generale per le elezioni in Via Veneto all’Hard Rock Cafè, qualcosa dovrà pur dire. Non contenti quale miglior cosa se, anziché fare autocritica come nel 2001, si trova un ottimo capro espiatorio esterno, cui addossare tutte le colpe delle proprie scelte fallimentari. La chiamata astensionista di Grillo è un’ottimo alibi a cui appellarsi, sostenuti da quella parte di media che è simbiotico al PD e alla Sinistra estrema, abbiamo assistito alla demonizzazione di coloro che si sono semplicemente limitati ad esercitare le prerogative riconosciute a qualunque cittadino dalla Costituzione. Sottoscrivendo petizioni o promuovendo referendum oppure, semplicemente utilizzando l’unico spazio mediatico ancora non del tutto soggetto al ferreo controllo delle grandi lobby delle comunicazioni, la Rete Internet. Al punto da spingere lo stesso Presidente della Repubblica a pronunciare la sua scomunica quale fonte di tutti i mali del mondo. Così abbiamo osservato i mezzi ufficiali di informazione, che, se da un lato omettevano di coprire l’avvenimento di Torino e di tante piazze italiane rendendo pienamente conto delle ragioni di coloro che in esse erano presenti, dall’altro si profondevano in commenti, corsivi e articoli di fondo. Esprimendo con dovizia tutto il loro spregio, con un’accanimento e veemenza che non erano state riservate con ugual misura a Saddam o Bin Laden, fino ad oggi da loro stessi ci definiti come il male assoluto, spingendosi a citare calcoli statistici e probabilistici pur di sminuire frettolosamente le cifre di adesione e bollare l’iniziativa come un fallimento, dimentichi di non aver adottato il medesimo sistema statistico allorchè, in analoghe circostanze, gli stessi stimavano con generosità le affluenze nelle piazze della campagna elettorale o, più recentemente, del 25 Aprile canonico ufficiale, gremite forse sì, ma di gente ormai troppo spesso spesata di pulman e pranzo al sacco, quando non di ore di straordinario lavorativo, perché impiegate nell’esercizio della loro professione o attività istituzionale. Dimenticando che la chiamata alle piazze di Grillo, Travaglio e tanti altri nasceva proprio dalla denuncia di un’informazione italiana che da anni ha perso la capacità di descrivere la realtà per come essa è limitandosi colpevolmente a riferirne una libera interpretazione secondo le convenienze che di volta in volta si rivelano più vantaggiose per il sistema.

Dunque da oggi per la politica così come oggi la conosciamo il “Public Enemy n° 1” è Grillo. Lui e la gente normale, quella che incontriamo ovunque ogni giorno per strada e al bar, giovani e anziani, colti ed ignoranti, single e famiglie, la gente che chiunque ha voluto, ha potuto vedere ordinatamente in fila un assolato giorno di festa, decidere che fosse meglio mettere una firma per i propri diritti invece di andare al mare o starsene a casa davanti alla TV, questi sono la causa di tutti i mali. Di una sinistra che non sa più parlare la stessa lingua dei suoi elettori, che si imborghesisce e si trincera nella sua autorefernzialità. Di una sinistra che tra l’operaio ed il dirigente preferisce il secondo o che tra la scelta di difendere la gente della strada o la Casta sceglie la seconda. Di una sinistra che non sa rinnovarsi realmente soprattutto nei suoi uomini. Di una sinistra che non sa dire cose di sinistra quando queste erano messaggi come lavoro per tutti, casa per tutti e dignità per tutti. Di una sinistra che preferisce mettere la testa sotto la sabbia piuttosto che affrontare la realtà di un suo totale distacco dalle esigenze quotidiane di una buona metà del paese che combatte ogni giorno con la crisi economica, dei servizi e delle istituzioni.



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