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lunedì 3 novembre 2008

Le speranze del passato e la certezza del presente.

Diceva Totò: “ si stava meglio quando si stava peggio…”, esprimendo questo, sintetizzava quel comune sentire popolare che ciclicamente esprime la nostalgia per i bei tempi andati. Ancor oggi, in Italia, assistiamo al dibattito nostalgico, che tende ad una rilettura della storia italiana dell’ultimo secolo. Il Principe De Curtis, direbbe: “Ah! Quando c’era Lui!...” Una volta, quanti esprimevano certi sentimenti, venivano dipinti come “nostalgici”.
In realtà, a ben vedere, questo sentimento non è proprio ed esclusivo del nostro paese, bensì è ampiamente diffuso anche presso altre aree e popolazioni. Non inusuale è riscontare analoghi rimpianti per Hitler in Germania, per Franco in Spagna, per Stalin in Russia. Credo che in India qualcuno rimpianga la Regina Vittoria. Non bastasse è probabile trovare alcuni disposti a sostenere che anche le dittature argentine e cilene avevano i loro lati positivi.
Insomma, questo per dire che la memoria tende una sottile tranello che ci porta a confondere la drammaticità di alcuni avvenimenti storici con la spensieratezza della gioventù, grazie alla quale si poteva affrontare con leggerezza qualunque difficoltà. Sicuri di aver, davanti, tempo più che sufficiente per far fiorire i nostri sogni e concretizzare le nostre speranze.
Una volta invecchiati, venuta meno la nostra capacità di immaginare un futuro diverso, ci rimane solo il confronto tra una passato artefatto dalla nostra memoria ed un presente deludente e claustrofobico, che ci soffoca e ci induce a cercar conforto nei ricordi, che, come una droga, a maggior ragione stimoliamo solo nella loro parte migliore.
Probabilmente è la storia stessa dell’umanità e delle persone che ambiscono ad assumere un ruolo ed una condizione migliore, e che, non riuscendovi, si confronta con i suoi fallimenti. Tutti alla ricerca del proprio ruolo in una democrazia sociale, economica e solidale veramente compiuta, in grado di darci serenità e certezze per il futuro nostro e dei nostri figli, ma poi traditi dalle più disparate forme di applicazione del potere ad ogni latitudine.
Un potere onnivoro che cerca nella auto-consacrazione dei propri esponenti il diritto alla supremazia su tutti gli altri. Giustificandolo in ogni epoca grazie a pretestuose investiture divine o terrene. Alimentato, nel passato, da filosofie religiose che, invocando il “Dio lo vuole” o per “Grazia divina”, concedevano imprimatur e supremazia di pochi su molti. In tal senso il Calvinismo ne è un lampante esempio allorché stabilisce che”Dio ha predestinato dall'eternità chi sarebbe stato oggetto della grazia salvifica indipendentemente da qualsiasi loro merito, per solo Suo insindacabile e giusto beneplacito”. Insomma i ricchi sono tali perché Dio arride a loro, mentre i poveri devono il loro stato miserevole al fatto di essere fuori dalla grazia di Dio.
Questo modo di intendere gli equilibri sociali, ben radicato proprio nella Svizzera delle Banche, ove Giovanni Calvino incontrò il maggior favore, in realtà era preesistente e diffuso in molti altri paesi, in quanto funzionale al mantenimento degli equilibri sociali atti a far si che i ricchi rimanessero tali e i poveri pure.
L’avvento dell’Illuminismo e delle sue teorie circa il primato razionale dell’intelletto, misero in crisi, quando non sovvertirono totalmente, l’ordine preesistente, facendo venir meno quelle argomentazioni che sancivano le differenze tra le classi sociali, introducendo concetti come l’uguaglianza, la libertà, la fraternità ed aprendo la strada alla rivendicazione di accesso al potere di fette sempre più ampie di popolazione, fino ad allora escluse per censo, rispolverando concetti vecchi di duemila anni come la Democrazia.
Oggi, dopo poco più di duecento anni questi concetti sembrano essersi radicati, ma solo in apparenza. In quanto le applicazioni reali della democrazia hanno, il più delle volte, ceduto il passo a forme di potere oligarchico. Sotto le spoglie dei più variegati ideali, principi e filosofie, il potere ha sempre cercato di tutelare se stesso. Sopravvivendo alla crisi, che ha visto il declino delle monarchie per diritto divino, ha assunto gli aspetti più pragmatici di quello che fino a non molto tempo fa era definito Capitalismo, tramutandosi oggi in Globalizzazione e Liberismo economico. Grazie al quale il maggior o minor successo o ricchezza terreno è da addebitare non più alla benevolenza dei numi, bensì alle capacità ed alle doti di ciascuno. Inducendo in tutti la convinzione che “chiunque può diventare Presidente”.
Il problema è che tale assunto è del tutto illusorio e privo di reale concretezza. In quanto questa è una partita che si gioca con un mazzo di carte truccate, dove jolly ed assi finiscono sempre in mano ai medesimi giocatori. Il nostro è un sistema a camere stagne dove solo raramente avvengono delle “contaminazioni” e dei “travasi” tra i diversi ranghi sociali. Per cui la maggior parte delle volte il livello sociale in cui si muore è il medesimo di quello in cui si nasce, quando non peggiore.
Gli apparenti e periodici progressi di benessere,cui la società è soggetta nel corso del tempo, vanno intesi più come miglioramenti di tutto il sistema nel suo complesso, risultanti da tutta la scala sociale che, nel suo complesso, tende a salire mantenendo, però, inalterata la sua struttura interna e le distanze tra di diversi scalini che la costituiscono.
Oggi il nuovo “verbo” questo ci promette, non meno vago e indimostrabile del paradiso, della vita eterna o della valle in cui scorra latte e miele. Anzi a differenza delle religioni non ci chiede di attendere il “post mortem” ma ci induce la convinzione che esso possa concretizzarsi, qui, subito, ora.
Da ciò deriva la frustrazione per il presente che acuisce, se possibile, il rammarico e la nostalgia per un passato che, per quanto brutto, concedeva la speranza, fittizia a insaputa di ciascuno, di un futuro di successo che non si concretizzerà mai. Inducendo in noi una depressione che ci spinge a trovare una via d’uscita in alternative autodistruttive e deleterie per noi e per chi ci è vicino.
In questo gioco al confronto tra passato e presente in realtà vince solo chi non essendo stato, mai veramente, spodestato allora, oggi cerca di riabilitare la propria immagine, demolendo le tesi che lo vedrebbero sconfitto, promettendo l’impromettibile, e liquidando tutto il resto come populistico che, si badi bene, nasceva come “tendenza a idealizzare il mondo popolare come detentore di valori positivi” ma che poi la politica - proprio lei - ha contribuito in maniera determinante a indurre in tale termine una valenza negativa e dispregiativa, associandolo sempre all’aggettivo demagogico.
Insomma chi detiene il potere ne rigetta la sua ridistribuzione e per far ciò bolla tutto ciò che emerge dalla sua base, il popolo, sprezzantemente.

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