Ieri sera EXIT, il programma della 7, condotto da Ilaria D’Amico, aveva come tema “l’esercito italiano. Uomini che rischiano ogni giorno la vita, ma anche privilegiati e fannulloni. Dove si annidano gli sprechi? E dove si imboscano i soldati fannulloni? E come vivono gli eroi che vanno in missione rischiando la vita? L’esercito italiano nell’era del dopo-naja, come nessuno ve lo hai mai raccontato”.
Presenti in studio Ignazio La Russa, Ministro della Difesa, Rosa Calipari, capogruppo del PD alla Commissione Difesa della Camera, Matteo Salvini, vice-segretario nazionale della Lega Nord Andrea Nativi, giornalista de Il Giornale e direttore di RID, la Rivista Italiana Difesa e Franco Giordano, di Rifondazione Comunista.
Il tema ha suscitato non poche polemiche sia per il taglio giornalistico, che da La Russa è stato ritenuto denigrante dei militari, sia da quanti hanno assistito, ad una nuova sfuriata dello stesso ministro (dopo il caso con la De Gregorio), nei confronti della D’Amico e della redazione in quanto ritenuta rea di non aver saputo dare alla trasmissione un impostazione a lui più gradita.
In generale si parlava di soldi, sprecati, pagati o non dati. Il problema è che i convenuti sembravano un consesso di preti che parlavano di matrimonio, ossia tutti avevano un’infarinatura mediamente generica dei temi, ma con un approccio, per così dire, laico. Ossia privi di una approfondita conoscenza delle tematiche e della realtà dell’ambiente militare, sia sotto il profilo amministrativo che giuridico. Esemplare il momento in cui uno dei convenuti è stato inquadrato, a sua insaputa, mentre si rivolgeva ad un suo collaboratore presente in studio, chiedendo se fosse vera un’asserzione fatta da uno degli altri ospiti.
Senza voler entrare nel merito delle questioni dibattute, la domanda che nessuno si è fatto, ma che forse, a partire dalla redazione, sarebbe stato opportuno porsi. Ossia che, se si fosse parlato di temi come l’Alitalia, la Fiat, la Scuola o la Sanità, in studio avremmo avuto la presenza di almeno un rappresentante sindacale e/o di un esponente della categoria di lavoratori di cui si parlava.
Invece per i militari questo principio di rispetto e diritto all’autodifesa non è stato sancito, anzi si è preteso che ruolo di rappresentante di parte fosse svolto dal Ministro del dicastero interessato. Come pensare che, parlando di riforma scolastica, la Gelmini potesse assolvere il compito di rappresentare le ragioni anche dei dipendenti che contestano i suoi stessi provvedimenti. Un’ aberrazione meritevole di uno psichiatra e di anni di analisi.
Allora, forse, ancor prima di discutere se i militari lavorano o no, guadagnano o no, sono una risorsa o un peso per il paese, forse sarebbe utile stabilire se essi siano cittadini con i medesimi diritti, oltrechè doveri, di tutti gli altri cittadini, visto che non hanno neanche la possibilità di avere un organismo che svolga nei loro confronti un vero ruolo di parte sociale. Specificando che il Co.Ce.R. non è e non potrà mai essere tale finchè continuerà a sussistere come istituto interno alle gerarchie militari.
Il peccato è che nessuno dei presenti ha sentito, ieri, il bisogno di sottolineare l’assenza di questo convitato di pietra che era l’ipotetico rappresentante sindacale dei lavoratori con le stellette. Di sostenere che le denuncie, dure e concrete fatte dai reporter avrebbero avuto maggio vigore, forza, oltrechè essere maggiormente circostanziate, per non dire statisticamente significative, se nelle Forze Armate si aprisse la porta ad una maggiore democrazia interna, quale prodromo ad una maggiore trasparenza di ciò che avviene dietro il filo spinato di una caserma. A beneficio di tutti i cittadini che, giustamente, desiderano sapere come vengono spesi i soldi delle loro tasse.
Ma ieri, come tante altre volte in passato, ci si è persi a discutere del dito e non della luna che esso indica.
Presenti in studio Ignazio La Russa, Ministro della Difesa, Rosa Calipari, capogruppo del PD alla Commissione Difesa della Camera, Matteo Salvini, vice-segretario nazionale della Lega Nord Andrea Nativi, giornalista de Il Giornale e direttore di RID, la Rivista Italiana Difesa e Franco Giordano, di Rifondazione Comunista.
Il tema ha suscitato non poche polemiche sia per il taglio giornalistico, che da La Russa è stato ritenuto denigrante dei militari, sia da quanti hanno assistito, ad una nuova sfuriata dello stesso ministro (dopo il caso con la De Gregorio), nei confronti della D’Amico e della redazione in quanto ritenuta rea di non aver saputo dare alla trasmissione un impostazione a lui più gradita.
In generale si parlava di soldi, sprecati, pagati o non dati. Il problema è che i convenuti sembravano un consesso di preti che parlavano di matrimonio, ossia tutti avevano un’infarinatura mediamente generica dei temi, ma con un approccio, per così dire, laico. Ossia privi di una approfondita conoscenza delle tematiche e della realtà dell’ambiente militare, sia sotto il profilo amministrativo che giuridico. Esemplare il momento in cui uno dei convenuti è stato inquadrato, a sua insaputa, mentre si rivolgeva ad un suo collaboratore presente in studio, chiedendo se fosse vera un’asserzione fatta da uno degli altri ospiti.
Senza voler entrare nel merito delle questioni dibattute, la domanda che nessuno si è fatto, ma che forse, a partire dalla redazione, sarebbe stato opportuno porsi. Ossia che, se si fosse parlato di temi come l’Alitalia, la Fiat, la Scuola o la Sanità, in studio avremmo avuto la presenza di almeno un rappresentante sindacale e/o di un esponente della categoria di lavoratori di cui si parlava.
Invece per i militari questo principio di rispetto e diritto all’autodifesa non è stato sancito, anzi si è preteso che ruolo di rappresentante di parte fosse svolto dal Ministro del dicastero interessato. Come pensare che, parlando di riforma scolastica, la Gelmini potesse assolvere il compito di rappresentare le ragioni anche dei dipendenti che contestano i suoi stessi provvedimenti. Un’ aberrazione meritevole di uno psichiatra e di anni di analisi.
Allora, forse, ancor prima di discutere se i militari lavorano o no, guadagnano o no, sono una risorsa o un peso per il paese, forse sarebbe utile stabilire se essi siano cittadini con i medesimi diritti, oltrechè doveri, di tutti gli altri cittadini, visto che non hanno neanche la possibilità di avere un organismo che svolga nei loro confronti un vero ruolo di parte sociale. Specificando che il Co.Ce.R. non è e non potrà mai essere tale finchè continuerà a sussistere come istituto interno alle gerarchie militari.
Il peccato è che nessuno dei presenti ha sentito, ieri, il bisogno di sottolineare l’assenza di questo convitato di pietra che era l’ipotetico rappresentante sindacale dei lavoratori con le stellette. Di sostenere che le denuncie, dure e concrete fatte dai reporter avrebbero avuto maggio vigore, forza, oltrechè essere maggiormente circostanziate, per non dire statisticamente significative, se nelle Forze Armate si aprisse la porta ad una maggiore democrazia interna, quale prodromo ad una maggiore trasparenza di ciò che avviene dietro il filo spinato di una caserma. A beneficio di tutti i cittadini che, giustamente, desiderano sapere come vengono spesi i soldi delle loro tasse.
Ma ieri, come tante altre volte in passato, ci si è persi a discutere del dito e non della luna che esso indica.
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